l’intervista

«Ero molto con­tento della let­tera inviata a ot­tobre a firma di 138 perso­nalità musulmane ai leader delle Chiese e comunità cri­stiana e sono sicuro che que­sta risposta del Santo Padre verrà accolta con gratitudi­ne ».

Il cardinale Jean-Louis Tauran, dal primo settembre alla guida del Pontificio Con­siglio per il dialogo interreli­gioso, è visibilmente soddi­sfatto della piega che sta prendendo il dialogo tra la Chiesa cattolica e il mondo islamico.

«Come ho già det­to – spiega ad Avvenire – la lettera dei 138 è un docu­mento significativo, intanto perché è firmato insieme da personalità sunnite e sciite, il che non accade spesso, e poi perché usa un linguaggio e delle espressioni mutuate non solo dal Corano ma an­che dai Vangeli: un fatto nuo­vo ».

Eminenza, perché una ri­sposta «personale» della Chiesa cattolica alla lettera dei 138 islamici e non inve­ce una risposta collettiva di tutti i leader cristiani a cui è stata indirizzata?

Forse era difficile compilare una risposta collettiva da parte di tutte le Chiese e le comunità cristiane: avrebbe richiesto molto tempo e in­vece era bene rispondere ra­pidamente. Poi mi sembra che alcuni dei destinatari ab­biano già risposto.

Da ultimo poi, ma non per ultimo, nel­l’elenco dei destinatari della lettera il nome del Papa era messo in bell’evidenza al pri­mo posto, dopodiché c’era uno spazio e poi l’elenco del­le altre personalità cristiane. Ritengo che questo criterio grafico, certamente non ca­suale, meritava in qualche modo una risposta ad hoc.

Risposta che è stata firmata – a nome del Papa – dal se­gretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. Le è dispiaciuto un po’ che non sia stato il Pontificio Consiglio da lei presieduto a farlo?

Certamente no. Il nostro di­castero non è certo invidio­so che la risposta sia stata fir­mata dal più stretto collabo­ratore del Papa. Anzi, credo che anche gli interlocutori i­slamici saranno contenti di questa testimonianza della grande considerazione con cui è stata presa la loro lette­ra.

Il nostro dicastero co­munque è citato nella rispo­sta, laddove viene annuncia­ta la disponibilità ad un in­contro di lavoro con i firma­tari della lettera dei 138.

La lettera dei 138 e la rispo­sta vaticana segnano una svolta nei rapporti tra Chie­sa cattolica e mondo isla­mico?

Certamente questo dialogo ora viene rilanciato su nuo­ve basi. Ma da parte nostra non si tratta di una rivolu­zione copernicana. Bene­detto XVI aveva manifestato da subito la sua stima e il ri­spetto per i musulmani. L’a­veva fatto il 20 agosto 2005, durante la Giornata mon­diale della gioventù celebra­ta a Colonia quando, incon­trando i rappresentanti di al­cune comunità islamiche, a­veva detto: «Il dialogo inter­religioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta sta­gionale.

Esso è infatti una ne­cessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futu­ro ».

Però poi c’è stato il conte­stato discorso di Ratisbona…

È stata una interpretazione non corretta di quel discorso a generare incomprensioni. Ma la successiva visita pon­tificia in Turchia, l’allaccio dei rapporti diplomatici con gli Emirati Arabi Uniti e, da ul­timo, la storica visita del re di Arabia Saudita al Papa han­no dimostrato che quel mo­mento critico è definitiva­mente superato.

Quali possono essere i con­tenuti di un dialogo fecon­do con l’islam?

Al di là del dialogo più pro­priamente teologico, che an­cora non è stato iniziato e che indubbiamente presenta non poche difficoltà, credo che possa essere molto fe­condo il dialogo della cultu­ra e della carità e anche il dia­logo della spiritualità. Insie­me con l’islam possiamo cer­tamente contribuire alla sal­vaguardia di alcuni valori, come la sacralità della vita u­mana, la dignità della fami­glia e la promozione della pa­ce. Come ho già detto in pas­sato è molto importante im­parare a conoscersi. Ognuno di noi ha sempre qualcosa da imparare dall’altro. Ad e­sempio, noi possiamo ap­prezzare nei musulmani la dimensione della trascen­denza di Dio, il valore della preghiera e del digiuno, il co­raggio di testimoniare la propria fede nella vita pub­blica. Da noi invece i mu­sulmani possono imparare il valore di una sana laicità.

Permangono le differenze però sul diritto alla libertà religiosa…

È vero. Su questo punto per­mangono notevoli differen­ze. La risposta alla lettera dei 138 fa cenno a questo pro­blema.

Ci sono speranze di un dia­logo fruttuoso su questo ar­gomento?

Il processo avviato da questo scambio di lettere, e la fidu­cia reciproca che sembra es­sersi stabilita, certamente potrà contribuire almeno a far discutere dell’argomen­to. Ma sarà – credo – un pro­cesso lungo. La Chiesa cat­tolica, con il documento del Concilio Vaticano II Dignita­tis Humanae, ha riscoperto il principio che nessun uo­mo può essere costretto o impedito a praticare una re­ligione. L’auspicio è che an­che l’islam riscopra fattiva­mente questo principio.

Nel frattempo è possibile in­trodurre con l’islam il prin­cipio della reciprocità?

Certamente, noi riteniamo che ciò che è buono per i cre­denti di una religione deve esserlo anche per i seguaci di un’altra. Così, se i musulma­ni hanno avuto giustamente una grande e bella moschea a Roma, è altrettanto neces­sario che i cristiani abbiano la possibilità di avere una chiesa a Riad. Ma questo principio della reciprocità può essere efficacemente di­feso grazie al dialogo diplo­matico della Santa Sede con i governi dei Paesi a maggio­ranza islamica.

È possibile dialogare anche con chi nel mondo islamico fomenta il terrorismo?

In linea di principio, la San­ta Sede parla con tutti, per­ché non ha e non vuole ave­re nemici. Con l’islam che predica e pratica il terrori­smo – che non è islam au­tentico ma una perversione dell’islam – evidentemente non è possibile alcun dialo­go. È difficile parlare con chi uccide prima di aprire la boc­ca. Certo, se si potesse con le parole far rinsavire i terrori­sti, sarebbe molto bello. Ma dubito che sia possibile.

È stato Benedetto XVI a pro­nunciare la condanna più decisa del terrorismo di ma­trice religiosa.

Lo ha fatto da­vanti al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 9 gennaio 2006 con parole che vale la pena ri­cordare: «Nessuna circo­stanza vale a giustificare tale attività criminosa, che copre di infamia chi la compie, e che è tanto più deprecabile quando si fa scudo di una re­ligione, abbassando così la pura verità di Dio alla misu­ra della propria cecità e per­versione morale».

© Copyright Avvenire, 30 novembre 2007